L’Amazzonia viva delle popolazioni Shuar e Achuar
«Ma in Italia non ci sono indigeni?», chiede Tsamarint Fidel Mukucham Ujukam, abitante del villaggio Achuar di Wichim. Per l’antropologo, come per il naturalista, il concetto di originario, di incontaminato possiede un fascino irresistibile, ma la cultura pura, “originaria”, cristallizzata, resta un miraggio e allo stesso tempo un oggetto impossibile, senza senso.
Intorno agli anni ’50 si compie il peccato originale dell’incontro di alcune di queste popolazioni con l’esterno (nel linguaggio comune di queste zone si indica la foresta semplicemente con la parola dentro) sotto forma di coloni e missionari, di industria del legname. Gli indigeni hanno cominciato a conoscere il mondo di fuori, a contaminarsi e il mondo è entrato nella foresta sotto forma di persone, oggetti, vestiti… un processo lento ma continuo, probabilmente inesorabile, sicuramente affascinante, nel bene e nel male. Un processo caotico che porta a rispondere a bisogni, creare bisogni a cui bisognerà rispondere, dare risposte a cui apparentemente non corrispondono bisogni. Per chi arriva dall’esterno non è facile non trovare fuori posto computer, fotocamere, lettori cd; non è facile comprendere un modello di sviluppo che sembra partire dalla fine, creare infrastrutture slegate dalla loro funzione. La frase iniziale potrebbe sembrare ingenua, non lo è affatto. Oltre a contenere molti possibili significati (non ultimo un certo fastidio per l’attenzione di cui chi parla è oggetto) è una domanda che obbliga a rimettere sotto controllo la propria tendenza etnocentrica, che stabilisce contemporaneamente un contatto e una distanza incolmabile.